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L’ingiustissimo trattamento subito dagli atleti coreani

Giochi Olimpici 1936, Berlino. Il vincitore della maratona Sohn Ki Chung ed il suo connazionale classificatosi terzo, Nam Sung-yong, ascoltano a testa bassa l’inno giapponese. Entrambi però non riescono a godersi pienamente il momento di gloria. Infatti i due sono coreani, ma costretti a rappresentare il Giappone dato che la Corea, fin dal 1910, è colonia giapponese. Il governatore giapponese del territorio coreano non aveva permesso a Sohn ed agli altri atleti di rappresentare la propria nazione ai Giochi Olimpici. L’unica condizione era quella di parteciparvi come membri della delegazione nipponica e con nomi giapponesi. Così Sohn fu registrato come Son Kitei ed il suo collega Nam Sung-yong come Shoryu Nan. I due vinsero rispettivamente la medaglia d’oro e quella di bronzo sbaragliando gli avversari più quotati. Al momento della premiazione fu innalzata la bandiera nipponica e suonato l’inno giapponese. Entrambi tennero la testa china in segno di dolore rifiutandosi di firmare in giapponese e firmando solo con il loro nome in coreano. Nelle interviste chiarirono che la Corea era la loro madrepatria. Nonostante tutto non ci furono ripercussioni nei loro confronti al rientro in “patria”.
Alessandro Di Nardo

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